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Archivio mensile:aprile 2012

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Annie Abrahams, olandese trapiantata da molti anni in Francia, artista visiva, video e net artista, è una pioniera della web performance che ha sviluppato in varie forme. Biologa con un’attitudine da antropologa studia i meccanismi della comunicazione e delle sue trasformazioni nella rete, secondo i concetti di intimità e collaborazione. Le sue opere, non solo video, ma anche disegni, oggetti, installazioni, sono esposte in importanti gallerie in molte parti del globo, così come le sue numerose e interessanti performance sono ospitate nei festival più innovativi dedicati alle arti digitali.

Ci siamo dati appuntamento sulla piattaforma Twitter per una Tweet-intervista in dieci domande in cinque giorni, da lunedì 16 a venerdì 20 aprile 2012.

Ogni mattina posterò due domande alle quali Annie risponderà durante la giornata.
Argomenti: net art, web performance, video art, comunicazione, sentimenti, intimità

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Finestre chiuse.

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La lampada è accesa
In mezzo alla strada
lui balla il suo camminare lento
Sfuggente flessuosamente
Latitante
Sexy
Opaco

Non lo guardi
perché sai di guardarlo

Attorno ruotano
piatti vassoi
riso pilaf con haricots verts
maionese pas maison

Nessuna casa
ha le finestre aperte
sul tuo abisso
Blu
In fondo ha un fondo
e lui vi si affaccia
con aria da Charlot

La sua faccia è una maschera
perfetta
sospesa tra il dubbio di sé
e il cosmo un momento fa

Adesso l’amo ti è sfuggito di mano
Non riesci a definire
la sua espressione
il singhiozzo
il dolore iato del mondo
la crasi tra lo scricchiolare della sua mandibola
e il suo bacio

Avvolto in pan di spagna
riposa il pensiero
che si morde l’unghia

Ritorni a lui
Lui lui – Ti chiedi
Così è la bellezza?
Sfortunato lo sguardo
che non si è fatto toccare plasmare forgiare
Tu speri nel suo
che sciolga il marmo
fonda la creta
faccia evaporare il bronzo

Vuoi che solo rimanga
la luce
Altera aerea
L’hai intravista di sfuggita
allo specchio
E chiami il tuo Charlot
perché con la sua musica
richiami a sé il miracolo

Simona Polvani

Tradurre -oggetti d'uso

“L’inattendu”- L’inatteso. È stato come affacciarsi sul bordo di un pozzo colmo al culmine dell’acqua e specchiarsi, leggere sulla liquidità mossa della superficie parole di altri, di un altro, in una lingua conosciuta ma non dominata, piena di erre dolci, di termini che si spengono scivolando, di accenti acuti, gravi, circonflessi marcati a fuoco, di dieresi gentili, passi di danza in forma di cedille a spezzare le pianure delle frasi, di zeta perdute e ritrovate, di acca tramutate in asc(h)e, di una lingua discendente dalle antiche gesta, territorio delle romanze e dell’amour de loin.
Vedersi in quello specchio, sentire e risentire, quelle parole d’altri, di un altro, e volerle possedere, dentro il ventre, tenerle, dentro il ventre che è la mente, dentro il ventre della bocca, e generarle, di nuovo, rigirarle tra la lingua, impastarle, dar loro forma, partorirle nella propria lingua, nuove, diverse e prossime, sorelle, sorelle di segni, di interpunzioni, di idioma.
Desiderare che quella voce che senti leggendo nella mente, emettendola in suoni, stropicciandola con gli occhi, diventi anche la tua voce, l’articolazione delle tue parole, la modulazione del tuo respiro che si adagia sul respiro dell’altro, che il tuo ritmo delle sillabe che batte sul palato e tra i denti sia del ritmo dell’altro richiamo allitterato, nell’accesso di un testo scritto per essere detto, per risuonare nella cavità toracica, alzare e abbassare il diaframma di corpi e bocche di attori, e occupare la scena, i palcoscenici, teatri all’italiana, anfiteatri, moderni palchi rasoterra di fabbriche e hangar dismessi, l’etere di onde radiofoniche.
L’inatteso/L’inattendu, che Fabrice Melquiot mi ha regalato in un pomeriggio di luglio– un fuoco che occupa la mente e un verbo, che per la prima volta diventa possibilità, TRADURRE.
Tradurre da voce a voce, tradurre da cassa di risonanza a cassa di risonanza, tradurre teatro, testi di teatro contemporaneo, dove l’aggettivo non è un accidente, testi di teatro di autori viventi, che affrontano temi legati al nostro presente contingente-universale, al nostro sempre e qui. Pièce per adulti, adolescenti, bambini.
Ho iniziato nel 2003, traducendo due brevi passi del testo “La tigre blu dell’Eufrate” di Laurent Gaudé, la sfida che Alessandro Magno in agonia lancia al dio dei Morti. Frammenti, come buchi nel testo, ordito, in cui l’attore francese “diceva” in italiano, nella tela estesa del tessuto arabescato francese.
Ho proseguito con due testi immaginifici di Fabrice Melquiot, “Sulla mia pietra non farà notte” e “Albatros”, poi ho incontrato Christophe Pellet e la sua magnifica trilogia sulla fine del XX secolo “Il ragazzo giraffa”, Marie Ndiaye con la magia perversa de “Le serpi”. Ho poi conosciuto la crasi tra oriente e occidente di Gao Xingjian, già Premio Nobel per la letteratura – in parte mi ha cambiato la vita: “La Fuga”, su Piazza TienAnMen, “Ballata notturna”, manifesto al femminile, “Il Sonnambulo” sulle deviazioni del potere, “Il mendicante di morte”, contro le mistificazioni dell’arte contemporanea e la società dei consumi.
Ho scelto poi “Il muro” di Eddy Pallaro, per la ricchezza della sua parola scarna, “I bambini della Luna Piena” di Emanuelle delle Piane, reinvenzione poetica di un fatto criminale atroce, per poi tornare a Gaudé con “Onìsio Furioso”, un Dioniso barbone a New York in uno struggente à rebours.

Per ogni traduzione terminata ci sono almeno tre cantieri aperti. Per il 2012-2013, in effetti, ce ne sono molti di più: “Wanted Petula” e “Le laveur de visage” di Melquiot, “Le Murmonde” di Serge Kribus, “Louise les ours” di Karin Serre, “De la révolution” di Joseph Danan, e altri tre testi di Gao Xingjian.

Negli ultimi anni, oltre ai testi teatrali, ho tradotto anche alcuni saggi e poesie di Gao Xingjian.

Un altro desiderio adesso: tradurre voci silenziose, destinate a rimanere sulla carta, romanzi fatti per risuonare dentro di noi, da autore a lettore. Traccio una prospettiva, solo e sempre a matita.

Simona Polvani

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Il vuoto è siderale
Ci cadi dentro
Voli in spirale
di luce infinita e buio

Buio

Buio
(Ancora) Buio

Il corpo guarda
Oltre l’assorbimento e la dispersione
La mente cede
Il corpo è di carne
La carne respira
Il respiro resiste

Buio e vuoto

Si ribella la carne
Geme, spasima, si contorce il morso di carne
Il piacere scava, genera moti centrifughi
Fuga
Fuga

Fugge la fuga

Fuggi
Fuggo

Salto nel vuoto di carne
Diaframma di un respiro
squassato come magma
Mi inghiotte la carne
Oblio di palpebre sigillate,
scucite e ancora sigillate
Ti bacia la carne
Diapason di colonne vertebrali
in stridore di stelle

 

Simona Polvani